#ARTICOLO18
Si surriscalda il dibattito sull’articolo 18 ed il Paese si spacca sull’opportunità o meno della sua abolizione. Come è noto, l’art.18 è parte di una legge dello Stato: la 20 maggio 1970 numero 300, che rappresenta la norma fondamentale del diritto del lavoro italiano, meglio conosciuta come STATUTO dei LAVORATORI. Lo Statuto trae la sua origine da una intuizione di Giuseppe Di Vittorio e fu il risultato della stagione di grandi rivendicazioni sociali che culminò negli anni 68-69, periodo in cui l’allora ministro del lavoro Giacomo Brodolini istituì una commissione nazionale, alla cui presidenza chiamò il socialista Gino Giugni per la redazione dello Statuto appunto. Il parlamento lo approvò grazie al voto favorevole di DC e PSI, forze allora al governo e del PLI (che però era all’opposizione). Il PCI ed il MSI si astennero. Lo statuto si compone di sei Titoli di cui i primi tre più importanti sono : I della libertà e dignità del lavoratore (art.1-13); II della libertà sindacale (art.13-18); III dell’ attività sindacale (art.19-27) etc.(approfondisci) e disciplina in modo organico e sistematico i diritti dei lavoratori e dei sindacati. L’idea di per se è buona e mette chiarezza ed ordine in una materia importante, esplosiva e complicata. E allora cosa c’è che non va ? Almeno tre cose:
Lo Statuto ha più di 40 anni e li dimostra tutti. Infatti le Aziende oggi operano sul mercato globale e non più e non solo su quello locale. I problemi da risolvere ed i diritti da tutelare sono cambiati. Benissimo, per esempio, la tutela delle lavoratrici in maternità ma il vero problema è stato ed è quello del trasferimento delle produzioni in aree geografiche più competitive con conseguenze devastanti sull’impiego di mano d’opera italiana. Bene la salvaguardia dei diritti di associazione ed azione sindacale, altro esempio, ma il problema reale è l’impossibilità di convertire competenze non più richieste dal settore in cui l’azienda opera e come invece utilizzarle presso altre aziende o sul mercato.
Lo Statuto e l’art. 18 in particolare, sembrano basarsi su una realtà economico-sociale in cui le Aziende, ad eccezione di brevi periodi di crisi momentanea, per i quali c’è la cassa integrazione, permangono solide, sempre uguali a se stesse ed in crescita costante. Come conseguenza praticamente nega la possibilità di separazione del lavoratore dall’azienda per iniziativa di quest’ultima. Ma questo modello statico contrasta con ciò che è sotto gli occhi di tutti : le aziende per sopravvivere, hanno continuamente bisogno di essere più produttive, snelle, ramificate, devono ristrutturarsi scindendosi, raggruppandosi, facendo crescere alcuni rami e sopprimendone altri. Le stesse aziende le cui maestranze sono state le più attive nella redazione dello Statuto (FIAT, PIRELLI, BREDA, FALCK….) si sono pesantemente ridimensionate , dimostrando nei fatti che non è più possibile per un lavoratore, impegnare nella stessa azienda tutta la propria vita lavorativa. Alzare trincee e barricate sindacali per difendere lo status quo, tramite il meccanismo infinito della cassa integrazione in deroga è la strategia perdente sia per le aziende decotte che per le loro maestranze che per la spesa pubblica. Non sarebbe meglio per tutti se chi non ha più lavoro presso la propria azienda trovasse impiego presso altre aziende sul mercato oppure presso nuove aziende in start-up ?
Lo Statuto e l’art.18 in particolare, danno mandato, per altro con larga discrezione, al giudice di stabilire se una scelta imprenditoriale di ristrutturazione sia corretta o meno e così facendo sanciscono chiaramente la non volontà di affrontare, normare e risolvere il problema. Infatti, caricare la magistratura di un compito che non è intrinsecamente in grado di svolgere e comunque con tempi fuori dalla logica industriale e con l’incertezza più assoluta sul risultato, non è una soluzione che ha funzionato e potrà mai funzionare.
Questa rigidità in uscita dei lavoratori, accoppiata con la crisi mondiale, ha prodotto in Italia una generazione di precari: infatti per le aziende vale l’equazione: rigidità e non certezza in uscita uguale massima prudenza in ingresso, tanto più che la flessibilità (normata, soprattutto in uscita) e coniugata nelle sue forme più varie fino alla flexicurity (approfondisci), è un dato di fatto presso quasi tutte le altre Nazioni (approfondisci). L’abolizione dell’articolo 18 è perciò la soluzione di tutti i mali ? NO di sicuro ma sembra rappresentare una spallata forte e nella giusta direzione contro un mercato del lavoro ingessato ed incapace di accogliere i giovani, di re-impiegare chi è rimasto senza lavoro, di attrarre investimenti industriali stranieri. VIVA il LAVORO ! ABBASSO la DIFESA del POSTO di lavoro !
Luca Bertazzini lbertazz@libero.it
Continuano ad apparire sugli organi di stampa e nei telegiornali notizie di pesanti recrudescenze della imposizione fiscale nel nostro Paese.
Questo frena ogni iniziativa e diventa un non senso in queste condizioni parlare di incentivi alla ripresa.
Mi torna alla mente un vecchio motto: “le pecore si tosano tutti gli anni ma si scuoiano una volta sola”.
Siamo in una fase cruciale della partita sul lavoro e sul rilancio dell’Italia. Non si può perdere questa opportunità. Manteniamo la pressione!! Non facciamoli uscire dalla loro area!! … basta con le fruste ideologie!!
Il sistema sindacale attuale non si è dimostrato assolutamente adeguato per affrontare la crisi. E’ un dato di fatto. Può piacere o no ma è così. Il nostro sistema non ha aiutato minimamente nella risoluzione della crisi che è nata con origini diverse da quelle italiane ma rischia di lasciare a noi i segni più pesanti del suo passaggio e questo per un grosso contributo della nostra legislazione sul lavoro. Occorre cambiarla in modo radicale e sostituirla con una più adatta ai tempi e che tolga, prima possibile, l’ingessatura che di fatto si è creata
Seguendo sulla stampa le vicissitudini della Fiom mi viene spontanea una considerazione: “Maurizio Landini è sindacalmente attuale quanto una diligenza a cavalli sulla pista di Monza”.
Si ha quasi paura a pensarlo : che in Italia stia veramente cambiando qualcosa?! Mi sembra che questa sensazione di possibile rinnovamento sia galvanizzante: anche i commenti su questo blog hanno preso forza , vigore e mi sembrano tutti piu’ propositivi e speranzosi. L’articolo 18 e’ stato un grande simbolo ,metafora di un’Italia ingessata ,immobile, gerontocratica, mal governata e mal tutelata…la sua abolizione non puo’ che essere un vantaggio per il paese.
Tempi duri per i sindacati anche dopo le ultime dichiarazioni di Renzi di ieri: “non devo trattare con loro per fare una legge”. La battaglia dei sindacati sull’articolo 18, assurta ormai a loro simbolo, è diventata un boomerang per i lavoratori. Non entro nel dettaglio della questione, mi limito ad osservare come i sindacati in Italia, soprattutto in confronto al dinamismo di Renzi, sembrino auto d’epoca in gara con la Formula 1. Il rinnovamento deve realizzarsi anche fra chi è deputato a difendere i diritti dei lavoratori.
Bello ed efficace il paragone. Chiara ed evidente a tutti la frase del Premier. Chiara ed evidente adesso perché nei trenta anni passati non è stato così. Reset e avanti così
Si vuole eliminare l’articolo 18 per non fornire alla magistratura una discrezionalità “pelosa” nel definire quale sia la natura del licenziamento, potendo quindi imporre il reintegro oneroso del lavoratore. E’ chiaro che le multinazionali (abbiamo bisogno di quelle!!) non sono strutture di soli 15 persone, ma 150, 1500, ….!! e pertanto l’art. 18 si applica con tutte le conseguenze del caso e cioè: meno investimenti esteri!! e allora?? Per me una soluzione potrebbe essere questa: supponiamo che una azienda tedesca voglia investire in Italia. In Germania vigono certe regole che potrebbero essere mutuate anche in Italia nei confronti del personale assunto. Come si può licenziare un lavoratore in Germania cosi potrebbe essere fatto con le stesse regole anche in Italia. Si può auspicare In sostanza uno Statuto dei lavoratori uguale per tutti i paesi per quanto riguarda norme e tutele, anche quelli in via di sviluppo, e per la parte economica commisurato alla singole realtà locali.
Ovviamente concordo con l’analisi sugli intrensechi limiti dell’articolo 18. Rimango tuttavia dubbioso sull’opportunità di intraprendere una simile destabilizzazione degli assetti del mercato del lavoro italiano in una fase recessiva come quella che stiamo tuttora attraversando.
Il rischio è che avendone la possibilità i datori di lavori licenzino più persone di quante ne assumano. I disastrosi conti pubblici italiani non reggerebbero il calo di pil che ne seguirebbe. immagino che la domanda sia: da dove cominciamo?
E’ vero ! Potrebbe essere un rischio reale ma io penso che i datori di lavoro licenzino se non hanno lavoro e se non ne hanno non possono comunque mantenere dipendenti in eccesso ed inoltre, con il nuovo job act, per licenziare dovrebbero sborsare un congruo indennizzo e quindi devono riflettere bene se imbarcarsi in un esborso importante qualora la ristrutturazione non fosse indispensabile e soprattutto di lungo periodo. Invece il revival di domanda che ha già ampiamente interessato gli Stati Uniti e parecchie Nazioni europee, non noi purtroppo, dovrebbe incoraggiare i datori di lavoro, senza più il maglio del 18, ad assumere maestranze qualificate che permetterebbero di cogliere il momento favorevole, momento che se poi non si rivelasse tale, non li vedrebbe ingessati con quella spesa di personale per sempre. Cioè, in altre parole, un imprenditore fa i conti del rischio che corre e poi decide corroborato dal fatto che, nel peggiore dei casi, rischia una spesa certa e riconosciuta da tutti, non come oggi dove il processo è aleatorio, sicuramente lunghissimo e nessuno sa come e quando finirà
Le riforme che riguardano il lavoro sono quelle a cui dare priorità perché e da lì che la nostra economia può e deve ripartire. La grande crisi ha fatto scoprire che il lavoro e cioè l’industria, i servizi ed in generale l’attività economica sono LE cose più importanti. Alta disoccupazione è una tragedia di per sé ma significa anche che non c’è sviluppo e senza sviluppo occorre ridurre le spese come unico mezzo per pagare il debito. L’aumento del prodotto interno lordo invece permette di servire il debito e magari di ridurlo, di pagare le spese della sanità e di non ridurre le pensioni. C’è ancora qualcuno che crede che il calo del pil sia una buona cosa ?
E’ un’occasione unica, da non perdere. Certo per ricominciare a crescere servono anche altre cose: serve l’erogazione del credito, serve l’euro basso, serve eliminare la corruzione, serve la riduzione delle tasse sul lavoro, servono le liberalizzazioni, servono leggi ed una magistratura efficiente e che se ne intenda di industria, serve la riduzione della spesa pubblica etc …etc ….etc ma intanto non perdiamo questa occasione epocale. L’articolo 18 va abolito ?? Diciotto volte SI !!!!
A proposito del provvedimento che andrà ad essere inserito nella legge di stabilità per quanto riguarda i tagli alle spese sanitarie, viene fatto spontaneo osservare la non esattezza della impostazione del provvedimento in base al quale i tagli avvengono in modo indiscriminato per tutte le regioni. Meglio sarebbe se i tagli fossero mirati in base a precisi coefficienti da determinare regione per regione.
Procedere nel modo ipotizzato significa creare squilibri e disparità di trattamento come già è avvenuto in modo plateale con gli studi di settore per i quali sono stati necessari parecchi aggiustamenti, modifiche ai decreti originali e ancora non si è giunti ad una conclusione;
praticamente è la solita storia: una donna di 35 anni può essere la Belen o la Ninetta del Verzè, sono ambedue donne di 35 anni ma con una notevole differenza sostanziale.
affascinante la metafora di Belen per spiegare la disparità fra le regioni! penso che la vera battaglia per risolvere il problema degli sprechi regionali sia quella dei costi standard. Solo così potremo uscire dal paradosso delle disparità dei costi delle prestazioni…
Se sfatiamo il mito dell’art.18, l’ITALIA può finalmente entrare nell’era moderna del lavoro. Ma attenzione non solo per l’industria privata ma anche per il settore pubblico ed in particolare per la pubblica amministrazione. Sarebbe un errore gravissimo, oltre che un’ingiustizia sociale, abolirlo solo per il settore industriale privato.
La sindrome dello struzzo e cioè dico che non si può licenziare e poi tutte le aziende calano in modo costante con ricorso a pre-pensionamenti, uscite volontarie, casse in deroga a non finire, incentivi di ogni sorta etc. etc. rendono la nostra economia molto vulnerabile e l’investimento straniero praticamente impossibile perché assolutamente privo di certezza sui costi nel caso in cui le cose dovessero andare male. Questa è una situazione tipica italiana che non ha riscontri in Europa e nel Mondo. Non è vantaggiosa per le imprese, non lo è per i lavoratori e per la Comunità ed allora cui prodest ? Non voglio essere cattiva ma prima ci scrolliamo di dosso i vincoli e l’extra potere delle organizzazioni (anche sindacali) ed introduciamo norme precise, prima ripartiamo con l’economia e con il ciclo virtuoso. Dobbiamo sbrigarci e cogliere questa opportunità ora che l’economia sembra riprendersi e non restare fra i pochi che non ripartiranno.